Tuesday 13 December 2016

Bianca, fucsia, nera o gialla: pulirsi il culo con il Portogallo.


Portogallo come una pecora in braccio al pastore, che a breve la sgozzerà. Portogallo con poche fabbriche, con pochi veleni e pochi alberi. Portogallo che si affaccia su di un mare immenso, e sembra che sia pronto a salpare. Portogallo di vite e di ulivo. Sulle lievi alture, monocolture di pini da legno ed eucalipti da cellulosa. Alberi che prosciugano le sorgenti ed acidificano il suolo. Nessun animale ha niente da fare in un bosco di eucalipti. Anche il sottobosco fatica a crescere. I pastori in costume tradizionale e mantello di lana badano alle greggi e si ubriacano di vino.
Siamo tra i boschi di pini del parco nazionale della Serra de Estrella. Nel punto dove i pini, in alto, finalmente si diradano e lasciano il posto alle querce ed ai castagni, rivoli d'acqua zampillano da ogni parte e si insinuano in antichi canali che riforniscono vetusti mulini. Gli alberi da frutto popolano le strette piane ed i pascoli. Una zona un tempo fiorente e popolata, dopo decenni di abbandono rivive grazie a un piccolo nucleo di immigrazione nord europea. Stef e Nadia, vicini di casa dei nostri host, vivono lì da cinque anni. Lui è un olandese sorridente e tra le altre sue abilità è fabbro ferraio. Nadia è francese, cresciuta in teepee con la madre, fratelli e sorelle nel sud del Portogallo. Dice che non ha mai lavorato molto nella vita perché lavorare non le piace. Ma mentre noi chiacchieriamo nella veranda della sua casa di legno, che Stef si è costruito da solo, lei impasta ed inforna il pane, accende il focolare esterno con una sveltezza esemplare, prepara la torta ed il cha per tutti, taglia e mette le castagne sul fuoco. Il tutto con una destrezza ed una velocità che mi lascia sbigottito. Mi ricorda l'abilità e la manualità delle donne zingare, ma non quelle del campo, più abituate ad una vita in casa, bensì le mogli e le figlie dei calderai nomadi, che si destreggiano abili tra fuochi da campo e pecore da macellare. Stef, quando sorride, sorride tutto quanto, dai capelli alle dita dei piedi. Ha gli occhi di un verde brillante e parla l'inglese forbito e cadenzato degli olandesi educati. Gli mostro il disegno di un falcetto. Mi piacerebbe me lo forgiasse lui a mano. Lo voglio pesante, robusto, di acciaio vecchio, indistruttibile. Accetta, felice della commissione. Gli lascio i soldi in anticipo. Lo farei anche senza, dice lui. Glieli lascio lo stesso.
Nella Serra da Estrella la nostra casa è una roulotte verde con una piccola stufa a legna, ricavata da una bombola di gas. Anche questo mi ricorda gli zingari, del campo, questa volta. Il bagno è il bosco, l'acqua potabile viene dalla sorgente, l'acqua corrente dal piccolo fiume che scorre poco più a valle. L'orto sembra un prato fiorito a maggio, amaranto e tagete mescolano le loro sfumature accese con il verde carnoso del cavolo e le gocce vermiglie dei pomodori. Tutto che cresce a macchie, ciuffi, cespugli sparsi, senza linee rette, senza filari, come se si fosse autoinseminato. Rifacciamo l'isolamento della casa di legno. Strappiamo lo strato di lana dalle pareti interne, grattiamo le assi, le trattiamo con una soluzione impregnante fatta in casa. Ci muoviamo a piedi tra un paese e l'altro, rimpiangendo il camper rimasto in Italia. Ci scaldiamo nelle bettole, bevendo vino a poco prezzo e di buona fattura, che qui tutti si fanno da soli. Nella Serra de Estrella è vietato piantare eucalipti. Le piantagioni che crescono su tutto il Portogallo servono a fare carta. L'eucalipto sottrae acqua al terreno e la rilascia in atmosfera. D'estate, sotto le piantagioni, si muore di caldo. Non si sente un uccello volare. Gli scoiattoli sono spariti. Solo le api trovano da fare al momento della fioritura. In compenso, il tronco resinoso prende fuoco che è una bellezza. Goncalo, un vicino di casa che vive in yurta con la fidanzata Rita, mi dice che questi boschi a monocoltura di pino o eucalipto are just waiting to set fire. Ogni anno decine di incendi flagellano la nazione, e li chiamato incendi di foreste, sottigliezza della disinformazione.

Un mese nella Serra ed abbiamo capito che siamo stufi di stare in casa d'altri. Vogliamo un posto nostro. L'eterno dover chiedere perfavoregrazie ci sta sfiancando.
Ce ne andiamo dalla Serra e raggiungiamo la casa di Cleo, nel Portogallo centrale, per una breve tappa di due settimane prima di scendere a sud. Una zona di clivi scoscesi, coltivati ad ulivi e viti e, naturalmente, eucalipti e pinho nacional. La sistemazione è very basic, una fredda ed umida casa di pietre di scisto che ci fa rimpiangere la roulotte. Ma non c'è niente di unfair: Cleo ha vissuto una stagione intera qui, prima di trasferirsi nella casa grande. Cleo è una inglese sognatrice, vecchia hippie che si è cresciuta da sola tre figli in teepee nel Daevon. Si è insediata qui, in una valle dove d'inverno il sole batte poco, in una zona colonizzata dagli inglesi, che hanno occupato le antiche case di pietra dei contadini e dei pastori. E' una vecchia signora, con le sue fissazioni ed i suoi equilibri, che noi, come famiglia rumorosa e numerosa, facciamo vacillare. Ma le portiamo anche tanta vita, quando la sera siamo tutti insieme nel grande e caldo salone ci guarda con affetto. Che silenzio ci sarà quando andrete via, mi mancherete. La stretta vallata è fredda e poetica, con le terrazze contenute da muri di scisto che cambiano colore quando il sole ci batte sopra. Dopo l'ultimo muro in basso si apre una stretta piana a forma di ferro di cavallo, dove c'è l'house garden, vicino a casa, ed il river garden, più in fondo, vicino al fiume che scorre rumoroso tra i sassi. I terrazzamenti sono così ripidi e ravvicinati che ci si può agevolmente parlare da una parte all'altra della valle. Nella piana scorre un fiume impetuoso, che forma una piscina naturale di acqua gelida. In paese si racconta che un tempo il fiume scorresse lungo l'intero pianoro, e che un solo contadino ne deviasse il corso, con scassi e muretti, dopo che il suo figlioletto fu trascinato via dalle acque. Intorno a casa di Cleo c'è un pettirosso, che ogni mattina vola e picchietta sul vetro della finestra, come volesse entrare e fare colazione. Si riposa sul ramo, frulla intorno a noi. C'è sempre, ci segue nei lavori e nelle passeggiate. E quando l'ultimo giorno saliamo per il sentiero per portare gli zaini in macchina lui lo percorre con noi, ci saluta volando da un albero di ulivo all'altro. Il bambino non vuole lasciare la sua vallata. Di giorno fa molto caldo, lavoriamo in maniche corte. L'aria è umida la mattina, intrisa di rugiada, mentre la notte, quando ritorniamo alla casa di pietra, rabbrividiamo di freddo. Per quanto carichiamo la stufa la stanza non si scalda mai. I muri di pietre a secco lasciano passare l'aria gelata, trascinata dentro dall'ascensione del calore della stufa. Gli ulivi di Cleo non vengono potati da tempo ed hanno raggiunto altezze ragguardevoli, ma ancora più alti sono i pini, che si sono fatti largo nel corso degli anni. Cleo non vuole pini nell' uliveta, anche se io credo stabilizzino i terrazzamenti riducendo i crolli. In ogni caso li tagliamo tutti. Uso la sega ad arco perché non mi fido molto della motosega, e workaway non prevede assicurazione per i lavoratori. Charlie, un ragazzo del Devonshire, mi aiuta. Indirizziamo gli alberi con una tacca, poi seghiamo longitudinalmente. Quando sentiamo i primi crepiti gridiamo timber! E stiamo a sentire il tonfo secco del tronco che si schianta a terra.
Cleo mi dice che la pulp industry in Portogallo è di proprietà di una società inglese. Poi mi da una notizia allarmante, che devo verificare prima di diffondere. Però quando ce ne andiamo da casa sua verso la fermata del bus che ci porterà ad Aljezur, mentre guardo dal finestrino le interminabili colture di eucalipto da un lato e dall'altro della strada mi risuonano nelle orecchie le sue parole: wiping our asses with Portugal.
Quello che abbiamo capito da Cleo è che non vogliamo abitare in una casa di pietra. E che la piantaggine è un'altra spontanea da tenere in considerazione. La mastite di Veronica l'abbiamo guarita con impacchi di questa pianta. Ci chiediamo a volte come faccia questa donna di più di sessant'anni a vivere in un tale contrappasso di comodità. In una valle così inospitale. La vasca da bagno è fuori e l'acqua la scalda accendendo il fuoco sotto, come il pentolone dei cannibali. La toilette è fuori anch'essa, niente più di una cassa con un secchio dentro, da svuotare periodicamente. Prima di trasferirsi nella casa grande ha vissuto per una stagione nella casa di pietra dove abbiamo pernottato noi per due settimane. Al gelo. Il sole d'inverno è un passante fugace, su quei clivi erti e male orientati, inospitali. Eppure i ruderi delle case di pietra, le terrazze, le vecchie vigne sepolte dai rovi, sorrette da pali di scisto che sembrano di legno talmente sono tagliati con maestria, i sentieri appena visibili sotto la spessa erba, i mulini a valle ed i terrazzamenti con i canali di drenaggio sono il segno evidente che questa vallata è stata, un tempo densamente abitata. Le voci ed i canti dei contadini si mescolavano allora al rumore delle zappe, delle accette, delle roncole e dei segacci.
Salutiamo quelle anguste vallate e saltiamo su un bus. Dopo un giorno eccoci qui. Al sud. Paradiso dei surfisti. Aljezur è un classico paese bianco della costa atlantica. Pieno di stranieri e scuole di surf. Qui la vita costa. La terra è bellissima, rossa di argilla, grassa, ricca. L'acqua è poca e torbida nei ruscelli. Le basse colline coltivate a querce da sughero, piante basse e contorte, scorticate, sofferenti. I corbezzoli crescono radi, in bassi cespugli. L'ambiente è internazionale e stimolante. Inglese e portoghese si alternano nei dialoghi. Fernando ed Eva si sono ritagliati un bell'angolino qui. Dieci ampie terrazze con due belle case. Producono ortaggi e ospitano yoga retreats. Eva, ceca, pratica, sorridente, si dedica alle figlie ed al nido familiare. Lavora nella free school che anche le sue figlie frequentano. Arrotondano con piccolo artigianato e servizi turistici. Fernando è il classico portoghese del sud: surfista, bello come il sole, sangue freddo e grande istrione. Noi siamo qui per occuparci dell'orto, che non è stato curato per qualche mese. Prepariamo il terreno, lo puliamo dalle erbacce e dallo cha preto, un'infestante che si riproduce molto rapidamente, seminiamo cover crops e green manure, aglio e mostarda, pacciamiamo e diamo forma ad un orto dalla geometria perfetta. Fernando ama l'ordine. Il suo garden è l'opposto di quello visto nella Serra da Estrella. Ordinato, curato al dettaglio, netto. Il suo amico Rahim lo aiuta con il lavoro e con i suoi preziosi consigli. Rahim è ebreo di Jerusalem. Peace activist, olistic and hebrew, ma non si ritiene jew, giudeo. Rahim è farmer da quindici anni, esperto in eco agricoltura. Minuto e leggero, sembra un bambino. Ma quando parla l'inglese perfetto del viaggiatore di lunga data è come se recitasse un incantesimo. Ammutolisco ed allargo le orecchie quando tocca l'argomento agricolo. Lo cha preto lo combatti con le continue semine, oppure con orticole perenni come l'asparago ed il carciofo. La melanzana cotta è praticamente nulla dal punto di vista nutritivo. Gli parliamo della nostra idea di tornare a nord. Una famiglia ci ospiterebbe e vorrebbe iniziare un progetto insieme. Lui è un vulcano di idee e ci suggerisce, a bruciapelo, di creare un centro ecoagricolo per turisti, spiegandoci nel dettaglio i primi lavori da fare, di contattare l'ambasciata italiana per metterci a disposizione degli italiani che vogliono trasferirsi qui. Ci fornisce anche il contatto di una sua amica dell'Università di Coimbra e di un'olandese che vive vicino a Coja e che sta portando avanti un progetto ecoagricolo. Positivo e solare, ti dà la carica, Rahim.

Qui al sud cominciamo piano piano ad entrare nel giro. Ma i prezzi dei terreni sono esorbitanti. A causa dei turisti, dicono. Su al nord i prezzi sono più bassi, e Sandra e Claudius, svizzeri, non vedono l'ora di iniziare a creare qualcosa insieme. Claudius è un buon carpentiere, e si è costruito la yurta da solo; nel paese vicino c'è una bella Waldorf school che ha prezzi molto contenuti, ma siamo dubbiosi lo stesso. Qui a sud l'inverno è più mite, il mare è più vicino e l'ambiente è più stimolante. Però l'estate è torrida e secca, la scuola è molto cara e l'acqua dei rivi è fetida. E non ci sono sorgenti potabili. Al nord, al contrario, l'estate è più fresca, l'acqua c'è ed è pulita, la vita costa meno.
Dopo una breve ricerca trovo finalmente un report di un'agenzia di consulenza e supporto agli investimenti esteri sulla pulp industry portoghese, che smentisce un poco quello che mi aveva riferito Cleo, ma i dati mi fanno ugualmente riflettere: gli eucalipti portoghesi servono a fare carta, ma non igienica. O meglio, non solo. La maggior parte della fibra e della cellulosa degli eucalipti serve a produrre carta da stampa. Solo il 6% serve a fare toilet paper. Parte di questo sei percento viene usato dalla Renova, società portoghese, per produrre l'ormai celebre carta da culo colorata. Nera, rossa, gialla, fucsia. Quando ci puliamo il culo con della carta igienica comune, bianca, c'è una buona probabilità che questa sia prodotta con legno di eucalipto. L'albero che sta uccidendo il suolo portoghese, la foresta pluviale brasiliana ed i boschi del Borneo. Se invece hai il privilegio di usare la carta colorata della Renova, venduta in tutto il mondo, allora puoi essere sicuro che ti stai pulendo il culo con il Portogallo.

 Lo chà preto.

Tuesday 5 July 2016

Avocado, vulcani e nascite.

L'avocado è una meraviglia di albero. Il fusto deciso, rugoso. La foglia larga, di un verde brillante. I rami bassi, piegati dal peso di frutti e fogliame, arrivano a terra. Il mio preferito tra i 180 alberi dell'impianto, qui da Vincenzo ed Elisa, è un selvatico, verde smeraldo, con fogliame fitto, a cupola, che ci puoi stare sotto come in una capanna. I frutti sono meravigliosamente grassi e fragranti, e fino a che non si raccolgono non maturano. Rimangono lì, appesi, integri, fino a che non arriviamo noi a staccarli con le forbici periscopiche. Uno, due, tre. Contiamo i frutti che cadono dopo il taglio per non perderli tra l'erba verde. Ne mangiamo a volontà.


Dopo poche settimane dal nostro arrivo, cominciano a fiorire gli agrumi. Nell'aria si spande il profumo inebriante, aromatico e speziato delle zagare. Sembra impossibile che un fiore così dolce, vellutato e fragile spunti su una pianta così spinosa, ruvida ed inospitale. Insieme ai limoni nasce anche Amanita Naima, che ora  riempie le nostre giornate. Sta bene all'aperto, sotto gli alberi, come tutti i funghi
Un'eruzione dell'Etna ci ricorda che, da queste parti, è Lui che comanda. E' stato Lui a plasmare queste terre dare loro la forma che hanno oggi. Le piante che qui crescono hanno dentro un poco di fuoco di lava. La rucola è particolarmente piccante, i pomodori asciutti e sapidi, le ciliegie dolci e saporite. Abbiamo allestito un orto, il primo tutto nostro, e non vediamo l'ora di raccogliere.
I ragazzi ci hanno accolto come nemmeno ci aspettavamo. Per la prima volta, (anzi, la seconda, dopo il Giardino della Gioia, o forse la terza, dopo Piccapane) sentiamo di avere il tempo da dedicare anche a noi, alle nostre necessità, senza sentirci dei rubapagnotte. Vincenzo ed Elisa hanno tre figli, e sanno bene cosa significa avere famiglia, il lavoro, il tempo e gli spazi che bisogna dedicarle.




Monday 14 March 2016

A noi kafka ci fa un baffo.


Era settembre dell'anno scorso, e dopo una bella giornata al mare con la cara Doriana stavamo tornando verso Piccapane. A un kilometro dall'arrivo il camper Sabot si ferma in una rotonda, si spegne, senza preavviso e senza rumoracci, solo si spegne. Andrea e io ci guardiamo dicendoci con gli occhi: “ecco è successo, Sabot ci ha lasciati e siamo dal culo”. Doriana invece, incredibile ottimista in ogni circostanza, urla forte e chiaro e con un bel sorriso: “Una nuova avventura per la famiglia!”. Sul momento non avevamo apprezzato granchè la sua capacità di sdrammatizzare le situazioni semi tragiche, ma in seguito ne abbiamo fatto più volte tesoro.
Ora che negli ultimi giorni la vita si è completamente dimenticata dell'ordine, dei programmi e della forma che avevamo tentato di darle da due mesi a questa parte, la frase della dolce Doriana la ritiriamo fuori dai ricordi come un mantra, ridendo per non piangere e riuscendo a tirare avanti con il sorriso e con un po' di positività che ancora vive in noi.
Iniziamo dal principio. Un mese e mezzo-due fa scegliemmo la tappa successiva a Thar Do Ling, scelta fatta con estrema cura: in quel luogo avremmo trascorso quattro mesi e avremmo dato la luce alla nostra piccola. Quante serate a pensare e soppesare le varie possibilità, a chiederci a quali aspetti dare più peso, quanti dubbi! Scegliemmo un B&B a Zafferana Etnea, gestito da una famiglia con due bambini, tanta terra e tanti progetti. Quanto entusiasmo da entrambe le parti!
     Il giardino della Kolymbetra.

Il 23 febbraio salutiamo Thar Do Ling e dalla provincia di Palermo dove eravamo scegliamo di percorrere tutto il sud della Sicilia sulla costa e arrivare all'Etna dal sud, prendendoci una decina di giorni di vacanza e intimità familiare prima di giungere nel nuovo luogo. Ogni cosa stava andando per il meglio: noi travestiti da turisti per qualche giorno, opere d'arte, templi e riserve naturali, bel tempo e un po' di vento, mare e colline.

Passiamo anche a conoscere Eckhard, host wwoofer con cui abbiamo più volte parlato al telefono e che incontriamo a casa sua, vicino Comiso. Casetta di pietra, la cucina di legno, la natura che regna incontrastata, rispettata ed amata tutto intorno. Lui ha 70 anni, ex professore universitario di fisica, tedesco che da vent'anni vive qui in Sicilia. Quel che vediamo lo ha costruito lui, con l'aiuto dei wwoofer negli anni, le case sono state ristrutturate, i terreni recuperati, è magnifico e armonioso. I due-tre giorni trascorsi con lui sono piacevoli ed autentici. Lavoriamo nel piccolo vigneto, un ritmo di lavoro e di vita sereno ed umano. Una famiglia tedesca con un bimbo di due anni e mezzo,il piccolo e biondo Noha, è ospite wwoofer da Eckhard da diverse settimane. Sono anche loro in viaggio con il camper dopo aver lasciato lavoro e casa in Germania. Il loro bimbo è un elfetto sveglio e generoso, loro sono una coppia rilassata e armoniosa, noi grandi abbiamo la stessa età e anche Bianca è incinta del secondo bimbo. Un bell'incontro. Le serate da Eckhard le trascorriamo tutti insieme discutendo e riflettendo e poi giocando a vari giochi da tavola. C'è un'intimità e un'atmosfera familiare inattesa e gradevolissima.
Prima di andarcene da quella piccola oasi, il nostro prossimo host ci fa il pacco: cambia idea e non vuole più ospitarci. Ci ritroviamo col culo per terra e ci diciamo “Una nuova avventura per la famiglia!”. Grazie Doriana, non sai quanto sei preziosa.
Venerdì ci dirigiamo verso il mare per cercar pace e calma dove rimettere in ordine le carte e capire cosa fare delle nostre ossa. Finiamo per caso a Scoglitti, un paesello accanto alla città di Vittoria. Parcheggiamo Sabot sul lungomare, spoglio di macchine e persone, è ancora inverno, pizzerie e bar sono perlopiù chiusi. L'indomani, dopo una bella mattinata di sole caldo, castelli di sabbia, bagno in mare del coraggioso Andrea, riordiniamo le nostre cose per ripartire, verso dove non lo sappiamo con esattezza neppure noi. Ma... sorpresa sorpresa... Sabot non si accende! É ormai l'inizio pomeriggio di sabato, le officine sono chiuse fino a lunedì mattina. Non ci resta che piangere. Oppure non ci resta che goderci albe e tramonti e il tempo insieme, come mi scrive Valentina in un affettuoso messaggio. E così il fine settimana della nostra semi disperata famiglia si trasforma in due giorni di mare sole sabbia e passeggiate sul lungomare nella amena Scoglitti. Una località balneare che se fosse priva dei mostri di cemento che guardano il mare e della plastica mista ad immondizia varia che borda la spiaggia, non sarebbe per niente sgradevole. Ma ci basta poco per stare bene, il parco giochi guarda le onde, il sole splende, Maelia è raggiante e ci sentiamo in ferie.
Domenica sera chi doveva ospitarci ci ricontatta: ha trovato qualcuno, che che ci accoglierebbe, suoi vicini di casa, della rete Helpx. Ci parliamo al telefono; sono una famiglia con tre bambini, hanno un'azienda agricola, apertissimi di spirito hanno detto perchè no.
Lunedì mattina il carroattrezzi grande e giallo carica Sabot e lo porta fino ad un'officina di Vittoria. In due ore, qualche vite e qualche molla l'elettrauto ha risolto ogni cosa, non era nulla di grave. E così come dice Maelia “Ha aggiustato il camper in un baleno!”. Tiriamo tutti il fiato.
La ventata nera di sfortuna si è finalmente allontanata da noi? O forse non era sfortuna ma un cambiamento necessario per andare verso il meglio. Senza voler pensare che fosse un destino già scritto che ci attendeva, ci piace credere che tutto abbia un senso. Più grande di quel che noi possiamo comprendere.

Saturday 13 February 2016

Vento, pietre e calci

 

Sento fuori gli alberi scossi dal vento, è buio da ormai due ore. In cucina fa freddo come quasi sempre, in casa c'è silenzio, dormono tutti, bimbi e grandi. Dondolo e Giorgiana sono nella loro stalla al riparo, in attesa di domani e di altre bucce d'arancia, fieno, carezze. Le parole sono rimaste bloccate da mesi e mesi, non c'è più stata quella serietà, concentrazione, costanza e dedizione che aveva permesso a questo blog di nascere, seguirci e raccontarci nel nostro viaggio. La cosa ci fa dispiacere, ma non riusciamo a modificarla come vorremmo, il che è un peccato. Come lo è il fatto che la nostra ricerca sui resistenti alla modernità si sia arenata senza più essere salvata da nessuno. Fa dolore quando la osserviamo lì, senza vita, piena in potenza di interessanti stimoli, ma immobile. E invece di ridarle vita la guardiamo stare. Ci servono amore e disciplina. Sappiamo di poter ritrovare lo slancio, speriamo avverrà presto.
Oggi era martedì grasso, era previsto insieme con Laura e Rosario e i loro tanti helpxers di costruire e poi bruciare i fantocci come vuole la tradizione, ma non lo abbiamo fatto. Porterà male? Non sono cose rinviabili, Natale è il 25, non il giorno dopo. Peccato. Ci sarebbe piaciuto rinnovare questa festa pagana, abbiamo forte bisogno di dar fuoco ai pensieri e alle paure profonde per andare avanti più forti e leggeri. Troveremo altri riti.
 
Sono trascorsi i tre mesi pattuiti con Simona e Danilo a Thar do ling. Sembra ieri, durante le pause di pulizia del grano a Piccapane, nel caldo di ottobre, parlavo per la prima volta al telefono con Simona, ci presentavamo senza mai esserci viste e incontrate prima, prendevamo informazioni e accordi. La presenza qui di Anthea e Ethan, i due bimbi che Simona e Danilo hanno in affidamento dalla scorsa estate, è stata determinante per la nostra scelta. E non ci siamo sbagliati. Dopo solo venti minuti dal nostro arrivo Maelia era già a giocare con loro e a correre in tutta la casa, tutti e tre eccitati dal nuovo incontro. E da allora, tre mesi fa, questa amicizia è maturata e si approfondita molto. É stato meraviglioso vedere i bambini cercarsi sempre, volere uno la presenza dell'altro, sentire il loro legame stringersi. Sarà un gran dolore separarli, tra un paio di settimane. Piangeranno, e piangeremo. A volte dover andare pesa, ma ci ricordiamo di essere in viaggio. Certo è che conoscersi è stato arricchente per ognuno di loro. I più belli qui sono loro, i piccoli. Hanno decorato l'albero di natale, ballato e ballato a suon di musica, letto storie, fatto camminate nel bosco verso e oltre il fiume, raccolto le olive, preparato la pizza e lo sfincione, munto le mucche di Marceca. Hanno imparato a non avere più timore degli asini, tanto grandi e tanto buoni, ad arrampicarsi sui tortuosi ulivi, a fare mazzi di fiori e di erbe, a raccogliere il finocchietto selvatico per le sarmale a capodanno, trascorso insieme il veglione intorno al fuoco a cui hanno e abbiamo affidato i nostri progetti per il nuovo anno, hanno condiviso le levatacce nelle mattine buie e fredde dell'inverno per andare a prendere il pulmino giallo zeppo di bimbi più grandi e non sempre simpatici. Hanno vissuto la quotidianità in modo genuino. C'è chi inizia ad imparare ad essere più generoso e chi invece spinto dall'imitazione assaggia qualche cibo nuovo in più, c'è un costante imitarsi nel parlare e nei desideri, nei giochi e nei gusti.

E noi grandi? Il mondo di Simona e Danilo lo abbiamo un poco esplorato, abbiamo conosciuto parti importanti delle loro famiglie, abbiamo incontrato e condiviso bei momenti con gli amici più stretti. Mai ci eravamo sentiti accolti come qui, inseriti nella vita quotidiana. Simona dopo poche settimane dal nostra arrivo mi disse con un sorriso “Faremo tutto insieme in questi mesi, farete parte della famiglia.” Ha avuto ragione.
Wwoofing per tre mesi qui, due famiglie di quattro e tre persone che vivono insieme, che convivono, come hanno detto Simona e Danilo. Ci si vede dalle sei e mezza del mattino alle otto e mezza della sera. Mai facile, ma spesso piacevole, stimolante, istruttivo.


A noi mancano i lavori in campagna. Dopo le prime settimane dedicate alla raccolta delle olive, che sono state per noi un ottimo inizio, conviviale, sereno, il nostro contatto con la terra e le piante si è ridotto enormemente. Le energie sono state investite per dare forma ad un pezzo del muretto a secco sul lato nord ovest della casa, un lavoro bello, ma lunghissimo e faticoso, ripetitivo soprattutto per chi come noi ha più il compito di apportare il materiale da utilizzare per la creazione piuttosto che il tetris stesso del costruire il muretto a secco. Le montagne di detriti che da anni opprimevano il giardino davanti casa sono diminuite, tanti rovi sono stati tolti, e tante carriolate di pietre e sabbia anche. Resta ancora molto da fare, ci saranno altre braccia e altri cuori a proseguire dopo di noi questo compito.
Nella pancia la nostra bimba scalcia, mai stanca, nascerà vicino all'Etna e non in questi monti come avevamo sperato. Alcuni ulivi grandi e frondosi ci erano sembrati accoglienti per sostenerci durante il travaglio, il salone colmo di luce libera di entrare dalle grandi finestre in cui si è dentro casa, ma sembra di esser fuori nel bosco, ci aveva chiamato, ci eravamo visti li dare alla luce la piccola. Ma è di nuovo tempo di andare. Ci rivedremo.

Tuesday 29 December 2015

Addii, arance e olio di Sicilia.


Lasciamo il Salento il 2 novembre. A metà raccolta delle olive. Una raccolta meccanica e rumorosa, con gli abbacchiatori che scoppiettano e le reti da spostare in fretta sotto la pioggia di frutti carnosi. Salutiamo le piane verdi e le ulivete argentate. Salutiamo gli orti e le raccolte, le casse piene di verdura, ed il vino. L'ultima sera diciamo addio a questa terra piatta e fertile con una bottiglia di Cappello di Prete, del 2007. Grazie, Marco. Il vino, lu mieru, come si dice qui, è un ottimo rimedio contro la nostalgia.

Quanti bicchieri te mieru me biu,
tanti pinzieri te capu me lleu..

 

L'ultima notte è a Lecce da Noemi, e trascorre allegra, il vino scorre e la canapa brucia.

Lu megghiu dutturi è lu cantinieri,
Te llea de capu tutti li pinzieri..

Ridiamo, ci abbracciamo, ricordiamo i mesi passati insieme, quando ci rivedremo?

Ci quannu mueru ieu au 'mparaisu,
ci nun c'è lu mieru bonu ieu nun ci trasu..

 

Ci chiediamo quando torneremo in questa terra tanto bella e tanto violentata. Difficile a dirsi. Il Salento è il tempo che non torna, anche se sembra non sia mai cambiato, con i servi e li padruni ed i campi di cicorie.
Lasciamo il Salento. Raggiungiamo Taranto ed osserviamo increduli la maestosa, velenosa decadenza dell'Ilva. Capannoni immensi e ciminiere torreggianti, puntate contro il cielo come canne di fucile. Ed ovunque si guardi, un sottile strato di finissima polvere rossa, di limatura di ferro, che si posa delicatamente su tutte le superfici, come una spolverata di zucchero a velo sopra una torta. Scappiamo verso la Lucania costiera, tra le calanche, gli stabilimenti deserti e le agrumete che prendono il posto agli ulivi, fino in Calabria, dove le coste e i piedi dei monti sono accesi di piccoli soli arancioni e gialli, limoni, arance, mandarini. Saliamo fino a che le querce si sostituiscono agli agrumi. Lamirtìa è una cascina su un cocuzzolo dei monti silani. Sette ettari di bosco e pascolo. L'orto rigoglioso, a bancali seminati fitti, con un sistema di subirrigazione rudimentale ma efficace. Ranuccio e Gilda ci accolgono qualche giorno nel loro mondo. Il mondo fuori dal mondo. L'elettricità è a 12 volt, alimentata a batteria. La lavatrice è a pedale. L'acqua è piovana. Le api sono allevate in permacoltura, famiglie selezionate che non ricevono trattamenti e non sono sovrasfruttate. Le capre garantiscono lo staio per le coltivazioni. La vista spazia sulle ripide colline dall'altro lato dell'angusta valle boscosa, che sembrano lì, a pochi passi in linea d'aria, ma difficilissime da raggiungere, scendendo e risalendo gli erti costoni dei monti. La pace è rotta solo per brevi tratti dal latrato dei cani e dal rombo sordo dell'autostrada, quattrocento metri sotto. Ci rigeneriamo in quella pace per tre giorni, poi dall'erta montagna fitta di querce ed alveari, scendiamo a rotta di collo fino al mare, a comprare arance e passeggiare sui ciottoli, mentre un sole irreale riflette baluginando sul mare, e ci acceca. Caldo pranzo sulla riva. Poi si prosegue. Armonia. Lì si produce miele con il metodo tradizionale. Lì impariamo che lo staio è la base dell'agricoltura biologica. Impariamo sul campo, spalando merda di vacca sui campi di fragole e merda di gallina sulle aiole. La merda dei maiali la ammucchiamo soltanto.


E la Sicilia è lì. Ci addormentiamo guardando le luci di Messina dalla sponda opposta. Sembra di poterla raggiungere con un salto. Se ne va l'ultima erba salentina, guardando i traghetti illuminati fare avanti e indietro. La mattina ci si imbarca e poi si guida fino a Palermo. Giriamo intorno alla città, e vediamo solo munnezza, cani ed autodemolizioni. Poi si comincia a salire. Verso Sciacca, verso l'altra sponda. Erte valli, monti brulli e paesi in bilico sulle frane.
La Sicilia è solitudine. Monti in mezzo al mare. La Sicilia è il sole sulle pagliare, ed i clivi sassosi, spogliati dai pascoli. La Sicilia è monnezza per le strade, ed i cani smagriti che ci razzolano dentro. La Sicilia è d'arancia, piccolo sole d'inverno, e  di arancina, calda e confortante. La Sicilia è un borgo fantasma, che racconta storie di briganti. La Sicilia è dolce, è salata, amara ed aspra. Accogliente ma spinosa, affabile ma sospettosa. È mare e montagna, alluvione ed arsura, carestia ed abbondanza. Sicilia è speranza, è partenza, è mattanza. Ogni borgo ha le sue croci, sotto le croci la giustizia sociale. La Sicilia è un bosco in fiamme, una vacca abbandonata nel fango. È un ulivo cresciuto tra i sassi, un muro a secco coperto di sterpi, una frana che avanza a piccoli passi.
Ci arrampichiamo di nuovo sui monti, poi scendiamo in una stretta valle, dove sopravvive una macchia di bosco. La casa di Danilo e Simona è su di un clivo, tra le terrazze che scendono fino a due ruscelli, che si uniscono a V ai piedi di un poggio. La casa è ristrutturata in bioedilizia. Intonaci in terra cruda, isolamento con sughero e paglia, pannelli solari e raccolta acqua piovana. Due asini brucano le infestanti ed arricchiscono la scarsa terra, piena di sassi, con cacca fresca che diventa in breve, suolo fertile. Tutto fa parte di un progetto permacolturale. I bimbi, Anthea ed Ethan, giocano con Maelia, noi raccogliamo di nuovo olive. Un raccolto straordinario, che rende il 22 percento. In due settimane di raccolta a mano la casa è più ricca di quasi quattrocento litri di olio freschissimo, verde brillante e profumato di bosco. La Sicilia è dubbio, attesa, speranza. Scelta, bivio. Separazione e ritorno. Attendiamo la primavera più che mai.
 

Thursday 10 September 2015

Picca pane e picca pater nostri


 Da Pasqua stiamo vivendo a Piccapane, wwoofer a lungo termine e non di toccata e fuga. Non scriviamo più da quel giorno. Come mai non lo sappiamo, forse la testa era troppo occupata a preoccuparsi d'altro. Cerchiamo finalmente di liberarla. Oggi, otto settembre, dopo mesi e mesi di arsura fuori piove. Ci concediamo il tempo di un tè caldo, del tavolo di legno in sala e del pc, di rimettere insieme ed in ordine gli appunti mai pubblicati sul blog. Ed eccoli qui: il primo paragrafo è di maggio, l'ultimo di oggi, gli altri stanno in mezzo a questi mesi.

 
Piccapane. Da due mesi siamo qui. La strada passa vicina, vicinissima. A Reggioli eravamo estremamente isolati, boschi colline alberi e verde tutt'intorno ovunque guardassimo. Ad Amaltea si era già più vicino alla civiltà, il paese era in fondo alla collina, si vedevano le luci della città, tra i poggi boscosi, in lontananza, come un esercito schierato a battaglia. Qui siamo accanto all'incrocio di due strade, una è la provinciale e l'altra meno frequentata. Sentire macchine e camion passare è ridiventato un abitudine.
Piccapane è un mondo, è apertura totale verso l'altro, è accoglienza di gente che viene, resta, prende e da, e poi va via. Ho visto passare tante meteore qui, ci dice Giuseppe. Si riferisce ai wwoofer e ai lavoratori che vanno e vengono. Giuseppe ha quarantatrè anni, i capelli neri che sembrano quelli di un giapponese punk, un'eleganza innata anche quando indossa la salopette da lavoro, milioni di cose da fare che lo portano a correre e lavorare tutti i santi giorni. Piccapane è la sua casa, è un modello, è una scelta. Beppe lascia le porte sempre aperte, in due mesi non l'abbiamo mai visto chiudere a chiave nulla. É un gesto che mostra come quest'uomo vede il mondo intorno a sé.


Richard, uno scrittore inglese di settantacinque anni, è stato in vacanza qui per un mese. Ora ci sono quattro wwoofer oltre a noi: una coppia di inglesi giovani e intraprendenti, Tom e Lucy, una ragazza inglese che ha insegnato italiano in Salento per un paio di mesi, Lizzy, e una ragazza italiana mezza sarda, mezza napoletana, mezza bolognese, Noemi. E poi ci sono gli amici di Beppe che vanno e vengono, che passano a salutare e a prendere un caffè, a suonare la chitarra fumando insieme una sigaretta, a portare le uova delle loro galline, a far conoscere il nuovo bebé nato. Un mescolio di gente, di progetti, di gente persa e che cerca di ritrovarsi, di cammini che sembra non c'entrino nulla uno con l'altro e invece si incrociano con un perchè.
Prima di avere delle galline sue Beppe vuole aspettare di trovare una moglie, ci dice che qui si usa così. Di animali a Piccapane ci sono solo cani e gatti. Due gatte hanno fatto i gattini nelle ultime due settimane, li abbiamo visti nascere di fronte alla cucina, era per noi la prima volta, un'emozione.


Salento è la risata delle ragazze, alla fine della festa, a lume delle ultime candele. Salento è un forno acceso, poi spazzato e con le frise a biscottarsi dentro. Salento è terra riarsa, rinvigorita da acque sotterranee, primitive. É il Passato che muove il Salento. I vecchi contadini sono quasi scomparsi, ma gli altri si ricordano. La memoria si è preservata, ma come in una lingua antica, come un ritornello griko, arcaico, perduto. Il ritornello di un antico canto dal fondo di un pozzo dove l'acqua si è raccolta, un pozzo scavato quando la memoria degli uomini vivi si perde. Salento è senza punti di riferimento, al centro della rosa dei venti. Dove soffia lì si va. Salento sono i pomodori sui cannizzi, con il sale e le mosche che non larvano, ma succhiano l'acqua e accelerano l'essiccatura. Salento è agnello alla brace, fumante aromi, che sale in alto mentre il vino scende. Salento e la terra bruciata, rossa di sangue contadino sputato da secoli a zappare sassi. Salento è geometria degli orti, perfetti, i frutti generosi. Salento è varietà, è scoperta. Salento è veleno, che si infiltra tra le crepe e inonda la terra, i rivi, i campi. Allora l'acqua buona la si deve scavare fuori da novanta metri di argille, e quando finisce non si sa. Salento è tamburelli e lucertole, muri e case di sassi, flaconi di roundup appesi agli alberi, zona avvelenata scritto su cartelli sdruciti, a matita, ed attaccato col nastro ai ceppi. Salento sono ulivi. Ulivi ed ulivi. Alberi torti sui loro tronchi, annodati sulle pieghe di potature vecchie di secoli, scavati, curati, allevati. Salento è sole e mare, ma non qui, ai paduli, in mezzo all'argilla ed alle zanzare. Salento sono le piante di capperi che invadono la strada, i fichi potati bassi, chinati sotto il peso dei frutti, gonfi, dolcissimi. Salento è terra de cozzi, trasformata in giardino.


L'ultimo giorno di maggio, caldo torrido, indosso pantaloncini corti di jeans. Siamo alla villa (il parco giochi del giardinetto del paese) tutti e tre e con noi c'è anche Lucio Meleleo, un caro amico, ex sindaco di Cutrofiano, dal '93 al '97. “Non è estate, è maggio, i pantaloncini troppo corti non sono ancora ammessi in paese. E poi vengono accettati solo per le turiste”, mi dice. “Ma io vengo da Torino, quindi sono una turista” replico io. “E no, tu ora mandi la bambina a scuola qui e lavori qui, ormai sei di Cutrofiano”. Il paese ti guarda anche quando sembra vuoto, credi non ci sia nessuno, ma senti che da dietro le finestre qualcuno guarda e osserva. Sempre.


L'iperico è una pianta spontanea che cresce vicino ai muretti ed ai bordi delle strade. Schiude un fiore giallo a cinque punte, grumoso, unto di polline. I contadini lo raccoglievano a San Giovanni. L'erba di San Giovanni è stata attribuita ad un santo perché è davvero una benedizione di Dio. Ingerito sotto forma di tisana è disintossicante, febbrifugo, antinfiammatorio. L'oleolito è invece miracolo su qualsiasi tipo di scottature. Bruciati dal fuoco, dall'acqua bollente, dal sole, appena si applica sull'ustione dono immediato sollievo, se la si unge regolarmente sparisce in metà del tempo. Applicazione prolungate fanno guarire cicatrici e fistole. Non esiste in farmacologia nulla di egualmente efficace. Anche l'olio di iperico della farmacia è blando rispetto a quello che ci si può fare da soli. É Giò a farmi scoprire l'iperico. Ne confeziona diversi vasetti ogni anno e li vende cari. Perchè raccogliere l'iperico è un lavoro di precisione. Ogni stelo ha un fiore aperto e due boccioli subito sotto. Se si strappa il fiore con troppa violenza i due boccioli rimangono attaccati sotto, così si raccoglie un fiore oggi e se ne perdono due domani. Bisogna chiudere i petali con due dita e recidere lo stelo con l'unghia subito sotto il fiore. Se si strappa la pianta alla radice e si mette in acqua continuerà a fiorire per giorni. Giò ci aveva indicato un bel cespuglietto nella campagna di Galatina. “Se la curate questa diventa la vostra pianta”. Ci mettiamo in tre a spulciare piccoli petali gialli, uno per uno. In quella raccolta avevo prodotto il mio primo vasetto. Quaranta giorni al sole, da scuotere ogni giorno. Il problema è che dopo l'inverno particolarmente umido, l'erba ai bordi delle strade diventa alta. E così i contadini passano con il falciaerba e puliscono, senza stare tanto a guardare cosa puliscono. Ieri mattina appena imboccata la stradina che mena ai campi di Beppe a Galatina, ho sentito un tonfo al cuore vedendo le ripe rasate di fresco. Il “nostro cespuglio” di iperico spazzato via come in un turbine.


Stamattina al campo grande di Galatina abbiamo raccolto colori. Meloni, angurie, pomodori, carote, sedano, cipolle, fagiolini, peperoncini, melanzane. Meravigliosi colori e profumi, e le mani godono a toccare tante diverse superfici. Il caldo rischia di non fare apprezzare più nulla, e il caldo è tanto, arriva presto. Cerchiamo di arrivare prima di lui, alle cinque e mezza siamo lì, insieme alla terra, con il sole che è ancora placido, un po' d'aria che soffia, noi ancora un poco assonnati. Un pomodoro dopo l'altro la cassetta gialla si riempie di rosso. Le piante stanno cominciando a seccare, da settimane non piove. Giò mi dice che se resistono ancora una decina di giorni si riprenderanno poi con le piogge dei temporali di agosto. Le piante di peperoncino sono in tre filari, le foglie verde brillante, i frutti verdi, arancioni e già rossi quelli più maturi. Ho timore a raccoglierne così tanti, forse il piccante passa anche attraverso il frutto chiuso? Giò mi rassicura, è innocuo finchè non lo si apre. La pianta sembra forte, quasi di plastica e invece mi accorgo presto che è molto fragile, rischia di spezzarsi ad ogni movimento. Una pianta di cristallo che produce frutti così potenti. Tantissime sono le piantine qui a Galatina che avevamo piantato noi stessi in primavera, in questa ricca terra rossa, con le felpe ancora addosso nella prima mattina. Le abbiamo viste crescere, abbiamo dato acqua e diserbato, e vederle ora tronfie di frutti è commovente. La terra ti tiene a sé legato, restituisce amplificato l'amore che hai messo nel lavorarla. La raccolta è un lavoro facile, ripetitivo, e dà soddisfazione. É questa la mia meditazione, non quella a gambe incrociate che per ora non fa per me. Nei primi minuti il cervello pensa al gesto che sta compiendo, poi si abitua e lo fa in modo meccanico e allora inizia ad attorcigliarsi intorno a pensieri. Poi cede al niente, ed è magia, volano le ore, si lavora felici nonostante il caldo torrido, la stanchezza di un'altra notte troppo corta, la voglia di ombra di un ulivo e di riposo. Mia madre ieri mi ha telefonato per sapere come stavo, aveva letto la notizia di un ragazzo morto di caldo e fatica mentre raccoglieva pomodori, voleva rassicurazioni sulle mie condizioni. Non sono le stesse, lui era un ragazzo sfruttato, noi siamo wwoofers. Le ore di lavoro sono intense, ma poi il tempo libero è tanto. Libero per riposarsi, per leggere e scrivere, per gironzolare, per un tuffo al mare, per giocare tantissimo con Maelia, per conoscere questo strano Salento.


Con un limone in mano sto per sedermi sui gradini davanti alla pineta, stanca e serena penso al pomeriggio libero che abbiamo davanti, andremo al mare? No, forse oggi c'è troppo vento.
Poi le orecchie registrano un rumore nuovo, i sensi tutti si allertano, il naso è in allarme, gli occhi cercano cosa c'è che non va. É lì, davanti a me, a quattrocento metri da casa. Fuoco. Non ho mai visto un incendio prima, nel mondo reale. In tv e nelle fotografie non conta. Torno in salone, cerco Beppe, lo avverto. Telefoniamo subito ai vigili del fuoco (o piompieri come li chiama Tati), arriviamo appena possiamo, è la risposta.
Chi ha appiccato il fuoco ha atteso il giorno migliore, oggi soffiava la tramontana, e il vento fa muovere e fa diffondere le fiamme in un attimo. Rabbia, paura, impotenza. Chi ha più sangue freddo reagisce. Beppe, Andrea e Luca in un attimo sono al canneto, Andrea e Luca con giacche e coperte per spegnere le fiamme più basse e contenere il fuoco e Beppe con il trattore per soffocare il divagarsi dell'incendio creando una linea tagliafuoco, taglia canne e erba per non permettere al fuoco di avanzare verso casa. Il fumo è spesso, entra nella bocca anche se la si tiene chiusa, il rumore degli alberi e delle canne che si bruciano e che si piegano morendo nel calore delle fiamme è spaventoso. Andrea e Luca battono e battono le fiamme più basse, riescono a limitare il fuoco. Beppe taglia e fresa. Le fiamme sono a tratti altissime, il fuoco rosso arancio, più vivo che mai. Gli uccelli in volo danzano un ballo impazzito. Noi altri rimaniamo a guardare, grati al coraggio di chi riesce a fare. Poi arrivano i piompieri, due ragazzi e una ragazza, giovanissimi, senza dir nulla iniziano a salvare. Con le manichette combattono le fiamme dal centro e dai bordi, riescono in breve tempo a far placare la bestia. Restiamo immobili, increduli, tristi.
Dietro di noi, a duecento metri, davanti a una piccola casa bianca di campagna, vuota e che ha l'aria abbandonata, due persone, un uomo e una donna, ci guardano immobili. Portano in noi diffidenza istintiva, fumano lunghe e grosse sigarette osservando la scena. Stavano lì a guardare da prima, non avevano chiamato i vigili, il vento non tirava dalla loro parte, non correvano pericolo, dunque perchè preoccuparsi?
“Lasciamo finire ai vigili del fuoco, torniamo a casa ragazzi”. Il meritato pisolino pomeridiano è stato ritardato di un paio d'ore. Beppe ha lo sguardo lontano, c'è rabbia e tristezza. “Le ore sono sempre le stesse, mattino presto o a cavallo del pranzo”, ci spiega, “scelgono per appiccare i momenti di maggiore distrazione e rilassatezza”. Succede una volta ogni anno o ogni due che qui venga appiccato il fuoco. La scorsa settimana cinquanta antichi alberi di ulivo, centenari e carichi di frutti che avremmo raccolto tra un mese, sono stati bruciati. Come si fa ad accettare, ad abituarsi, a lavorare e faticare serenamente? Non sappiamo il perchè di tutto questo, non lo capiamo, e non c'è per ora spazio per discuterne.


L'estate oggi sembra finita. Tiriamo fuori le felpe dall'armadio.
A luglio qui ci siamo sposati, un matrimonio fatto di vestiti teatrali, bicicargo rosa, bouquet home made, di intendo no deve dire si lo voglio, di picnic in pineta, di giornata a Portoselvaggio, di cena vegana, di canti di chitarra salentini e di poesie nude. Poi luglio è volato nel caldo e nel lavoro e agosto ci ha stupito da inizio a fine. Una lunga luna di miele, Prima il Molise e Jelsi, la famiglia, tutta tanta e unita, legami di sangue e di amore. Poi il Giardino della Gioia, perla vicino a Torre Mileto, lì gli ulivi secolari e la volontà di una vita rispettosa e grata, là la plastica e l'immondizia senza vergogna. Avremmo dovuto rimanere pochi giorni, ma la bellezza era tanta, non riuscivamo più ad andar via. E infine Peschici, dopo quattro anni di assenza. Valentina e Furio e i loro bianchi sorrisi, risate vino e serenità. Riscoprirsi e ritrovarsi senza che il tempo abbia mutato nulla.


Piccapane e Beppe ci accolgono di nuovo in questo fresco settembre, resteremo con loro ancora un altro po', la raccolta delle olive quest'anno la faremo più in grande, con in mezzo alle braccia e alle mani e alle reti anche le macchine che scuotono gli alberi.
Poi ci auguriamo libertà di ripartire, visualizzando sempre il positivo, apprezzando ogni incontro e restando affamati di scoperta.



Monday 6 April 2015

Zebre, Etruria e ginecei

L'ospite è come il pesce: dopo tre giorni puzza. Poichè ci fidiamo dei detti colmi di saggezza popolare siamo rimasti a Zebrafarm, Umbria, solo tre giorni. E che giorni! Pienezza e gioia.
Arriviamo in tarda mattinata, ci viene incontro abbaiando Tatagata, una dolce cagnona nera. Saviana e suo marito stanno lavorando alle finiture dell'atilier, cioè l'altelier di Ati, suo marito appunto. Lui è abbarbicato su una scala, sorridente e abbronzato, un bell'uomo pieno di pace. Quando scopriamo la sua età rimaniamo a bocca aperta, ne dimostra venti di meno. Saviana è serena, la dama dei boschi, capelli lunghi e grigio bianco, ci fa venire in mente Jane Goodall. La piccola casa o grande stanza che stanno terminando è fatta di balle di paglia e rivestita di terra cruda, i muri sono lievemente ondulati, in modo irregolare, sembra una grotta delle fiabe.
Saviana e Ati: lei si definisce italica, di tutte le origini, popolare-nomade-nobile, tutto fuorchè medio borghese. Lui è Argentino, ex bancario, attuale pittore, artigiano, orefice, contadino, viaggiatore. Da ormai molti anni condividono il loro cammino, un po' qui in Etruria, e un po' in giro per il mondo. Dopo poco arriva Revel, di ritorno da scuola, tredici anni: il suo viso è libero, il suo sorriso è semplice, i suoi occhi neri guardano al di là delle cose e a volte si perdono nell'infinito. Bellezza.
Feeling in inglese, sintonia in italiano, ecco quel che percepiamo dopo poche ore a Zebrafarm. Tre persone prive di fretta e di stress, tre persone complete, tre esseri umani, umani per davvero.
Maelia ci mette ancora meno di noi ad innamorarsi di loro, lascia cadere da subito ogni barriera, splende e sorride, gioca ed esplora, sembra aver scordato ogni paura e timore del nuovo, si dimentica di noi e si perde a giocare con Revel. Quale miglior cartina tornasole della nostra meravigliosa principessina?
 L'atilier in terra cruda e materiali di recupero.
“Camminate dietro di me! ...Lo sapete perchè si dice camminare in fila indiana?” ci chiede Saviana, e poi risponde lei al posto nostro: “Perchè gli indiani, che di cose ne sapevano tante, camminavano uno dietro l'altro, e non come facciamo noi, in branco sparso come una mandria di mucche. Qui a casa nostra camminiamo in fila indiana, perchè guardate intorno a voi, tutto questo è cibo, non va calpestato! Camminate solo nei sentierini perfavore.” Apriamo gli occhi, e finalmente vediamo, notiamo tutt'intorno ortiche, erba aglina, borragine, stellaria, falsa ortica...
Il primo pranzo a Zebrafarm è un piatto di pasta di farro con le ortiche, delizioso. Le ortiche le raccogliamo nel grande giardino di Saviana e Ati, noi con i guanti, lei no. “Se vai deciso e non ci pensi non pungono, e poi l'istamina delle ortiche è antiartritica”. Le crediamo sinceramente, ma le nostre dita no, probabilmente non siamo sufficientemente decisi. Il cestino di vimini si riempie di puntarelle di ortica, e le sue mani non hanno una sola bolla.
 La compost toilet.
Qual'è la professione di Saviana? Docente di permacultura, corsista, forse anche maestra di vita. Da trent'anni si occupa di permacultura, senza mai smettere di studiare e viaggiare. Tra pochi giorni partirà per un altro viaggio, destinazione Burkina Faso, perchè anche i burkinabè si interessano di permacultura. Va a fare un mese di corso, senza chiedere un compenso, ma solo una donazione. “Vogliamo riuscire a vivere solo di donazioni. Lavorare pensando al salario toglie bellezza al lavoro che si fa. Quando imbiancavo le case a vent'anni pensavo più al compenso che avrei ricevuto, che a quel che stavo facendo... Che senso ha?” D'estate a Zebrafarm Saviana e Ati tengono due corsi di permacultura e progettazione, gli iscritti sono da limitare, il prezzo è sempre adattabile a chi giunge e ai bisogni di ognuno ed è comunque estremamente democratico. Si chiama umanità.
Dopo pranzo Saviana tenta di migliorare una rocket stove, un'altra delle cose in cui è maestra. Si trova nella stanza Mandala, una splendida casetta in terra cruda, tondeggiante, grande come una yurta, luminosa e invitante alla meditazione. Quando vediamo la rocket, è la prima per noi, e capiamo il suo funzionamento la domanda che le poniamo è: “Ma perchè non ce n'è una in ogni casa dei paesi freddi?”. Questa domanda si sommerà a molte altre nel corso dei tre giorni, e la risposta che Saviana ci da è sempre la stessa: “Se voi mi dite perchè alcuni genitori picchiano i figli, perchè la gente ubbidisce alla pubblicità, ara i campi, mette i fertilizzanti chimici... allora io vi rispondo...” Insomma, non fa girare l'economia quindi nessuno spinge per diffonderla.
Le chiediamo alcuni dettagli sulla costruzione e sul funzionamento, “Poi vi do il pdf” ci dice senza l'ombra di strafottenza. É perennemente in corso, questi sono per lei giorni di pausa, non vuole essere docente.
Mattoni, terra cruda. Ecco i due componenti principali della rocket. Si brucia un quantitativo di legna infinitamente minore che nelle stufe tradizionali. Una parte della stufa è un grande e comodissimo (una volta coperto con un telo e dei cuscini) divano riscaldato, si può cucinare sia sulla piastra che nel forno... non riusciamo davvero ad immaginare qualcosa di più intelligente, economico, ecologico, furbo. Saviana fa corsi anche per imparare a costruire le rocket stove. Proprio il giorno dopo riceve una telefonata mentre siamo in campagna, è qualcuno che vorrebbe venisse a farne in una casa... “Signora io fino al prossimo febbraio non ho spazi, se volete venite a Orvieto, tra due mesi farò un corso a donazione lì, proprio per imparare a costruire le rocket, e poi ve la costruite da voi. Oppure se vuole le mando il pdf...” Saviana e le sue conoscenze sono consciute e richieste.
Revel. Una bambina magica, cresciuta in giro per il mondo. Prima di ascoltare i loro racconti di famiglia notiamo fin dalla prima sera il rapporto meraviglioso che Revel ha con sua madre e con Ati: è già una donna e ancora una bambina, autonoma, sicura di sé, dolce e umile. Non è piena di quelle frivolezze e di quegli atteggiamenti civettuoli e smorfiosi che si notano e si trovano così spesso nelle tredicenni di oggi. Da un anno va a scuola, l'ha chiesto lei, e sua madre ha ridotto i viaggi per andarle incontro. Gli anni precedenti ha fatto scuola a casa, preparatissima, ora è la prima della classe. É ricca di quella curiosità verso il sapere di chi non è mai stato obbligato a studiare, ma ha sempre avuto a disposizione tempo, libri, intelligenza, stimoli, creatività: tutto ciò che serve per far nascere e nutrire la cultura. Revel sceglie consapevolmente, non è una cosa così diffusa né tra i tredicenni né tra gli adulti. Sceglie di dire no grazie al nonno che le propone di regalarle il tablet, non ne ho bisogno. Ed è contenta di aver trovato una batteria in sostituzione di quella perduta nel suo vecchio cellulare, senza schermo-dita-foto-internet, ma che le permette di telefonare in caso di bisogno. Revel sceglie di non andare in gita a Milano con la classe, perchè è una città che già conosco e non mi piace. Scegliere, concentrarsi su quel che si sta facendo, star bene sia in compagnia sia da soli, saper riconoscere e sviluppare le proprie passioni, intessere dialoghi, giochi e relazioni umane con persone di ogni età. Sono rare ragazzine tali.
La seconda sera dopo aver colorato con Maelia, Revel e sua madre Saviana ci fanno una bella sorpresa: spettacolo di danze tibetane. Nei mesi trascorsi a Tenerife, Revel ha seguito ogni giorno dei corsi di danza tibetana, ha imparato, è diventata addirittura maestra. E così sul tappeto, davanti al divano, sotto ai nostri occhi stupiti e quelli divertiti e coinvolti di Maelia, per un'ora le abbiamo viste danzare, un sorriso leggero sul volto, le mani e le braccia che si muovevano delicate nell'aria, ogni pezzetto di corpo seguiva il ritmo della musica tibetana che usciva dal pc.
Ati si apre quando siamo da soli con lui, racconta e racconta delle sue tante vite, nel suo italiano quasi perfetto e ricco di accento argentino. Vent'anni di banca davanti ai computer nella grande Buenos Aires, un ottimo salario e una cravatta al collo. Poi quella cravatta è stata tagliata, la causa è stata insperatamente vinta, la vita ha preso un'altra piega, lui è andato a vivere in campagna vicino Cordoba. “Quando vivi in città e hai un buon lavoro non ti accorgi di tante cose. A me il mio lavoro piaceva, ma dopo tanti anni volevo cambiare. In città si spende tanto, a me sembrava necessario soddisfare tanti bisogni che ora non esistono nemmeno più per me. Ma quando sei in una grande città e guadagni, allora sei in un circolo, guadagni e spendi, e vai avanti così.” Ora Ati vive, fa il marito, il padre, dipinge e costruisce, taglia le acacie e semina l'orto, cucina, sorride, prende Revel sulle ginocchia e li senti parlare fitto in spagnolo, ridere.
Il mattino dopo siamo andati con Saviana alle terre che lei ama chiamare “la mia pensione”: poco meno di un ettaro di terreno, centotrenta ulivi, un poco di vigna, il lago di Bolsena sullo sfondo. Il terreno non lo ara, non lo zappa, non lo concima, da ormai dieci anni. Il risultato è uno strato di humus di almeno cinquanta centimetri, la terra è così soffice che il trapianto del corbezzolo ha richiesto solo poche e leggere zappettate. Gli ulivi non sono potati qui, Saviana taglia solo qualche ramo durante la raccolta delle olive. É sicuramente un gran risparmio di tempo non potare, e a quel che dice Saviana è un atto superfluo la potatura in vista di un maggior raccolto. Il suo di raccolto è ottimo e non è minore di coloro che potano e concimano le piante ogni anno. Durante la mattinata tagliamo decine e decine di ginestre nella zona di confine del suo campo con quello del vicino, è una piccola striscia tagliafuoco che deve rimanere il più possibile pulita. Le ginestre in caso di incendio sono le prime a prendere fuoco e quindi le tagliamo rase alla terra con il seghetto. Osserviamo Saviana seminare: getta sulla terra semi di lupino, di trifoglio, e di graminacee miste. Molti semi li mangeranno uccelli e insetti, altri attecchiranno e cresceranno. Il pranzo è fatto di pane, frutta, formaggi e un ottimo succo di albicocca, nella casa sull'albero costruita su un ulivo, guardiamo il lago. Serenità.
Nel pomeriggio si va tutti insieme alle terme I bagnacci. C'é anche la loro amica Alice e sua figlia Anita. Noi di film ne guardiamo ben pochi, ma poche settimane fa ad Amaltea avevamo visto “Le meraviglie”, la storia di una famiglia di apicoltori. E niente succede per caso... Alice è la regista di quel film. Donna speciale, aggettivo che in questa zona, ma anche in Toscana, usano per definire qualcosa di eccellente. “Il mio vino non è buono, è speciale” dice il viticoltore, e vuol dire il mio vino non è buono, ma è buonissimo! Dopo le terme si va a cena a casa di Alice, anche con lei funzioniamo da subito, si discorre, si ride, si beve un bicchiere di vino, si sta bene. E Maelia assorbe tutti, lei che senza parole dice più di noi tutti, lei che gioca e fa giocare, disegna le mani di Tashina come fossero due tele. Tashina, amica e coabitante di Alice, giovane botanica. Con Maelia è disponibile, amichevole, dolcissima. Tashina mentre parla sorride, mentre ti ascolta ti guarda dentro, non tiene nascosto nulla. A completare questo meraviglioso gineceo c'è Lima, cinque mesi, un vello bianco e morbido, gli occhi azzurri. Saltella dietro alle sue due mamme ovunque vadano, gioca con le bimbe, dorme davanti a casa accucciata come un cane da guardia. Lima l'hanno trovata agnellino di poche ore, mezza morta in un campo intorno a casa durante un temporale novembrino molto forte, il gregge fuggendo l'aveva lasciata lì. Tra biberon e amore si è salvata, ora è grande e forte, bruca senza sosta. Sperano di riuscire a reinserirla tra i suoi simili, anche se ormai l'imprinting ha fatto il suo lavoro, e non sarà facile convincerla di essere una pecora.
 Lima, la pecora-cane.
Andrea incontra Romano mentre lega le vigne nel campo, li vedo ritornare insieme verso la casa, entrambi sul piccolo trattore. Romano è contadino viticoltore, un sorriso amaro sul viso, una vita troppo piena di stanchezza e di lavoro. La sua cantina è semibuia, piena di botti, l'aria è pregna di legno e di vino. Ci fa assaggiare i frutti del suo lavoro, un vino buonissimo e lieve, che sa di vino e di null'altro, una vera bontà. La nostra piccola damigiana è ora piena del suo nettare.
L'ultimo giorno in Etruria lo trascorriamo a casa di Alice, Anita e Tashina. L'idea era rimanere solo per un caffè e per un saluto, ma abbiamo portato i cornetti e le paste, e i programmi sono cambiati un po'. Revel, Anita e Maelia hanno giocato per ore nel tappeto elastico, saltato e capriolato, letto storie, riso, guardato il cielo. Noi grandi si è chiaccherato tanto, di vita, di studi, di viaggi, di progetti. Alice è molto impegnata e altrettanto generosa, ci prepara un pranzo luculliano. Cucina tutto lei, anche il pane. Quando è pronto ce ne dà una forma, insieme a un vasetto del miele che fa suo padre. Maelia riceve da Anita un vestitino da trilly campanellino di un carnevale di un po' di anni fa, “A me non va più, usalo tu, è da principessa!”, le dice Anita.
Ci si lascia in un abbraccio con promesse di rivedersi presto.
Luoghi e persone meravigliose, la promessa di tornare la facciamo anche a noi stessi.