Portogallo come una
pecora in braccio al pastore, che a breve la sgozzerà. Portogallo
con poche fabbriche, con pochi veleni e pochi alberi. Portogallo che
si affaccia su di un mare immenso, e sembra che sia pronto a salpare.
Portogallo di vite e di ulivo. Sulle lievi alture, monocolture di
pini da legno ed eucalipti da cellulosa. Alberi che prosciugano le
sorgenti ed acidificano il suolo. Nessun animale ha niente da fare in
un bosco di eucalipti. Anche il sottobosco fatica a crescere. I
pastori in costume tradizionale e mantello di lana badano alle greggi
e si ubriacano di vino.
Siamo tra i boschi di
pini del parco nazionale della Serra de Estrella. Nel punto dove i
pini, in alto, finalmente si diradano e lasciano il posto alle querce
ed ai castagni, rivoli d'acqua zampillano da ogni parte e si
insinuano in antichi canali che riforniscono vetusti mulini. Gli
alberi da frutto popolano le strette piane ed i pascoli. Una zona un
tempo fiorente e popolata, dopo decenni di abbandono rivive grazie a
un piccolo nucleo di immigrazione nord europea. Stef e Nadia, vicini
di casa dei nostri host, vivono lì da cinque anni. Lui è un
olandese sorridente e tra le altre sue abilità è fabbro ferraio.
Nadia è francese, cresciuta in teepee con la madre, fratelli e
sorelle nel sud del Portogallo. Dice che non ha mai lavorato molto
nella vita perché lavorare non le piace. Ma mentre noi
chiacchieriamo nella veranda della sua casa di legno, che Stef si è
costruito da solo, lei impasta ed inforna il pane, accende il
focolare esterno con una sveltezza esemplare, prepara la torta ed il
cha per tutti, taglia e mette le castagne sul fuoco. Il tutto con una
destrezza ed una velocità che mi lascia sbigottito. Mi ricorda
l'abilità e la manualità delle donne zingare, ma non quelle del
campo, più abituate ad una vita in casa, bensì le mogli e le figlie
dei calderai nomadi, che si destreggiano abili tra fuochi da campo e
pecore da macellare. Stef, quando sorride, sorride tutto quanto, dai
capelli alle dita dei piedi. Ha gli occhi di un verde brillante e
parla l'inglese forbito e cadenzato degli olandesi educati. Gli
mostro il disegno di un falcetto. Mi piacerebbe me lo forgiasse lui a
mano. Lo voglio pesante, robusto, di acciaio vecchio,
indistruttibile. Accetta, felice della commissione. Gli lascio i
soldi in anticipo. Lo farei anche senza, dice lui. Glieli lascio lo
stesso.
Nella Serra da Estrella
la nostra casa è una roulotte verde con una piccola stufa a legna,
ricavata da una bombola di gas. Anche questo mi ricorda gli zingari,
del campo, questa volta. Il bagno è il bosco, l'acqua potabile viene
dalla sorgente, l'acqua corrente dal piccolo fiume che scorre poco
più a valle. L'orto sembra un prato fiorito a maggio, amaranto e
tagete mescolano le loro sfumature accese con il verde carnoso del
cavolo e le gocce vermiglie dei pomodori. Tutto che cresce a macchie,
ciuffi, cespugli sparsi, senza linee rette, senza filari, come se si
fosse autoinseminato. Rifacciamo l'isolamento della casa di legno.
Strappiamo lo strato di lana dalle pareti interne, grattiamo le assi,
le trattiamo con una soluzione impregnante fatta in casa. Ci muoviamo
a piedi tra un paese e l'altro, rimpiangendo il camper rimasto in
Italia. Ci scaldiamo nelle bettole, bevendo vino a poco prezzo e di
buona fattura, che qui tutti si fanno da soli. Nella Serra de
Estrella è vietato piantare eucalipti. Le piantagioni che crescono
su tutto il Portogallo servono a fare carta. L'eucalipto sottrae
acqua al terreno e la rilascia in atmosfera. D'estate, sotto le
piantagioni, si muore di caldo. Non si sente un uccello volare. Gli
scoiattoli sono spariti. Solo le api trovano da fare al momento della
fioritura. In compenso, il tronco resinoso prende fuoco che è una
bellezza. Goncalo, un vicino di casa che vive in yurta con la
fidanzata Rita, mi dice che questi boschi a monocoltura di pino o
eucalipto are just waiting to set fire. Ogni anno decine di
incendi flagellano la nazione, e li chiamato incendi di foreste,
sottigliezza della disinformazione.
Un
mese nella Serra ed abbiamo capito che siamo stufi di stare in casa
d'altri. Vogliamo un posto nostro. L'eterno dover chiedere
perfavoregrazie ci sta sfiancando.
Ce
ne andiamo dalla Serra e raggiungiamo la casa di Cleo, nel Portogallo
centrale, per una breve tappa di due settimane prima di scendere a
sud. Una zona di clivi scoscesi, coltivati ad ulivi e viti e,
naturalmente, eucalipti e pinho nacional. La sistemazione è very
basic, una fredda ed umida casa
di pietre di scisto che ci fa rimpiangere la roulotte. Ma non c'è
niente di unfair: Cleo
ha vissuto una stagione intera qui, prima di trasferirsi nella casa
grande. Cleo è una inglese sognatrice, vecchia hippie che si è
cresciuta da sola tre figli in teepee nel Daevon. Si è insediata
qui, in una valle dove d'inverno il sole batte poco, in una zona
colonizzata dagli inglesi, che hanno occupato le antiche case di
pietra dei contadini e dei pastori. E' una vecchia signora, con le
sue fissazioni ed i suoi equilibri, che noi, come famiglia rumorosa e
numerosa, facciamo vacillare. Ma le portiamo anche tanta vita, quando
la sera siamo tutti insieme nel grande e caldo salone ci guarda con
affetto. Che silenzio ci sarà quando andrete via, mi mancherete. La
stretta vallata è fredda e poetica, con le terrazze contenute da
muri di scisto che cambiano colore quando il sole ci batte sopra.
Dopo l'ultimo muro in basso si apre una stretta piana a forma di
ferro di cavallo, dove c'è l'house garden, vicino
a casa, ed il river garden, più
in fondo, vicino al fiume che scorre rumoroso tra i sassi. I
terrazzamenti sono così ripidi e ravvicinati che ci si può
agevolmente parlare da una parte all'altra della valle. Nella piana
scorre un fiume impetuoso, che forma una piscina naturale di acqua
gelida. In paese si racconta che un tempo il fiume scorresse lungo
l'intero pianoro, e che un solo contadino ne deviasse il corso, con
scassi e muretti, dopo che il suo figlioletto fu trascinato via dalle
acque. Intorno a casa di Cleo c'è un pettirosso, che ogni mattina
vola e picchietta sul vetro della finestra, come volesse entrare e
fare colazione. Si riposa sul ramo, frulla intorno a noi. C'è
sempre, ci segue nei lavori e nelle passeggiate. E quando l'ultimo
giorno saliamo per il sentiero per portare gli zaini in macchina lui
lo percorre con noi, ci saluta volando da un albero di ulivo
all'altro. Il bambino non vuole lasciare la sua vallata. Di giorno fa
molto caldo, lavoriamo in maniche corte. L'aria è umida la mattina,
intrisa di rugiada, mentre la notte, quando ritorniamo alla casa di
pietra, rabbrividiamo di freddo. Per quanto carichiamo la stufa la
stanza non si scalda mai. I muri di pietre a secco lasciano passare
l'aria gelata, trascinata dentro dall'ascensione del calore della
stufa. Gli ulivi di Cleo non vengono potati da tempo ed hanno
raggiunto altezze ragguardevoli, ma ancora più alti sono i pini, che
si sono fatti largo nel corso degli anni. Cleo non vuole pini nell'
uliveta, anche se io credo stabilizzino i terrazzamenti riducendo i
crolli. In ogni caso li tagliamo tutti. Uso la sega ad arco perché
non mi fido molto della motosega, e workaway non prevede
assicurazione per i lavoratori. Charlie, un ragazzo del Devonshire,
mi aiuta. Indirizziamo gli alberi con una tacca, poi seghiamo
longitudinalmente. Quando sentiamo i primi crepiti gridiamo timber!
E stiamo a sentire il tonfo
secco del tronco che si schianta a terra.
Cleo mi dice che la pulp
industry in Portogallo è di
proprietà di una società inglese. Poi mi da una notizia allarmante,
che devo verificare prima di diffondere. Però quando ce ne andiamo
da casa sua verso la fermata del bus che ci porterà ad Aljezur,
mentre guardo dal finestrino le interminabili colture di eucalipto da
un lato e dall'altro della strada mi risuonano nelle orecchie le sue
parole: wiping our asses with Portugal.
Quello
che abbiamo capito da Cleo è che non vogliamo abitare in una casa di
pietra. E che la piantaggine è un'altra spontanea da tenere in
considerazione. La mastite di Veronica l'abbiamo guarita con impacchi
di questa pianta. Ci chiediamo a volte come faccia questa donna di
più di sessant'anni a vivere in un tale contrappasso di comodità.
In una valle così inospitale. La vasca da bagno è fuori e l'acqua
la scalda accendendo il fuoco sotto, come il pentolone dei cannibali.
La toilette è fuori anch'essa, niente più di una cassa con un
secchio dentro, da svuotare periodicamente. Prima di trasferirsi
nella casa grande ha vissuto per una stagione nella casa di pietra
dove abbiamo pernottato noi per due settimane. Al gelo. Il sole
d'inverno è un passante fugace, su quei clivi erti e male orientati,
inospitali. Eppure i ruderi delle case di pietra, le terrazze, le
vecchie vigne sepolte dai rovi, sorrette da pali di scisto che
sembrano di legno talmente sono tagliati con maestria, i sentieri
appena visibili sotto la spessa erba, i mulini a valle ed i
terrazzamenti con i canali di drenaggio sono il segno evidente che
questa vallata è stata, un tempo densamente abitata. Le voci ed i
canti dei contadini si mescolavano allora al rumore delle zappe,
delle accette, delle roncole e dei segacci.
Salutiamo
quelle anguste vallate e saltiamo su un bus. Dopo un giorno eccoci
qui. Al sud. Paradiso dei surfisti. Aljezur è un classico paese
bianco della costa atlantica. Pieno di stranieri e scuole di surf.
Qui la vita costa. La terra è bellissima, rossa di argilla, grassa,
ricca. L'acqua è poca e torbida nei ruscelli. Le basse colline
coltivate a querce da sughero, piante basse e contorte, scorticate,
sofferenti. I corbezzoli crescono radi, in bassi cespugli. L'ambiente
è internazionale e stimolante. Inglese e portoghese si alternano
nei dialoghi. Fernando ed Eva si sono ritagliati un bell'angolino
qui. Dieci ampie terrazze con due belle case. Producono ortaggi e
ospitano yoga retreats. Eva, ceca, pratica, sorridente, si
dedica alle figlie ed al nido familiare. Lavora nella free school
che anche le sue figlie frequentano. Arrotondano con piccolo
artigianato e servizi turistici. Fernando è il classico portoghese
del sud: surfista, bello come il sole, sangue freddo e grande
istrione. Noi siamo qui per occuparci dell'orto, che non è stato
curato per qualche mese. Prepariamo il terreno, lo puliamo dalle
erbacce e dallo cha preto, un'infestante che si riproduce
molto rapidamente, seminiamo cover crops e green manure,
aglio e mostarda, pacciamiamo e diamo forma ad un orto dalla
geometria perfetta. Fernando ama l'ordine. Il suo garden è
l'opposto di quello visto nella Serra da Estrella. Ordinato, curato
al dettaglio, netto. Il suo amico Rahim lo aiuta con il lavoro e con
i suoi preziosi consigli. Rahim è ebreo di Jerusalem. Peace
activist, olistic and hebrew, ma non si ritiene jew,
giudeo. Rahim è farmer da quindici anni, esperto in eco
agricoltura. Minuto e leggero, sembra un bambino. Ma quando parla
l'inglese perfetto del viaggiatore di lunga data è come se recitasse
un incantesimo. Ammutolisco ed allargo le orecchie quando tocca
l'argomento agricolo. Lo cha preto lo combatti con le continue
semine, oppure con orticole perenni come l'asparago ed il carciofo.
La melanzana cotta è praticamente nulla dal punto di vista
nutritivo. Gli parliamo della nostra idea di tornare a nord. Una
famiglia ci ospiterebbe e vorrebbe iniziare un progetto insieme. Lui
è un vulcano di idee e ci suggerisce, a bruciapelo, di creare un
centro ecoagricolo per turisti, spiegandoci nel dettaglio i primi
lavori da fare, di contattare l'ambasciata italiana per metterci a
disposizione degli italiani che vogliono trasferirsi qui. Ci fornisce
anche il contatto di una sua amica dell'Università di Coimbra e di
un'olandese che vive vicino a Coja e che sta portando avanti un
progetto ecoagricolo. Positivo e solare, ti dà la carica, Rahim.
Qui
al sud cominciamo piano piano ad entrare nel giro. Ma i prezzi dei
terreni sono esorbitanti. A causa dei turisti, dicono. Su al nord i
prezzi sono più bassi, e Sandra e Claudius, svizzeri, non vedono
l'ora di iniziare a creare qualcosa insieme. Claudius è un buon
carpentiere, e si è costruito la yurta da solo; nel paese vicino c'è
una bella Waldorf school che ha prezzi molto contenuti, ma siamo
dubbiosi lo stesso. Qui a sud l'inverno è più mite, il mare è più
vicino e l'ambiente è più stimolante. Però l'estate è torrida e
secca, la scuola è molto cara e l'acqua dei rivi è fetida. E non ci
sono sorgenti potabili. Al nord, al contrario, l'estate è più
fresca, l'acqua c'è ed è pulita, la vita costa meno.
Dopo
una breve ricerca trovo finalmente un report di un'agenzia di
consulenza e supporto agli investimenti esteri sulla pulp industry
portoghese, che smentisce un poco quello che mi aveva riferito Cleo,
ma i dati mi fanno ugualmente riflettere: gli eucalipti portoghesi
servono a fare carta, ma non igienica. O meglio, non solo. La
maggior parte della fibra e della cellulosa degli eucalipti serve a
produrre carta da stampa. Solo il 6% serve a fare toilet
paper. Parte di questo sei percento viene usato dalla Renova,
società portoghese, per produrre l'ormai celebre carta da culo
colorata. Nera, rossa, gialla, fucsia. Quando ci puliamo il
culo con della carta igienica comune, bianca, c'è una buona
probabilità che questa sia prodotta con legno di eucalipto.
L'albero che sta uccidendo il suolo portoghese, la foresta pluviale
brasiliana ed i boschi del Borneo. Se invece hai il privilegio di
usare la carta colorata della Renova, venduta in tutto il
mondo, allora puoi essere sicuro che ti stai pulendo il culo
con il Portogallo.
Lo chà preto.